Come insegnare filosofia? Alcune considerazioni a margine di un libro di Massimo Mugnai

 

 

Durante un viaggio in treno più lungo del solito, ho letto il recentissimo libro di Massimo Mugnai, “Come non insegnare la filosofia” (Raffaello Cortina). Preciso che nella copertina il “non” è stampato in grassetto, ma poi è anche barrato con una riga rossa per cui avevo ipotizzato, credo legittimamente, che l’operazione dell’autore fosse quella di tentare di determinare in positivo come insegnare filosofia, piuttosto che dedicarsi solo a una critica di alcuni modi comuni di farlo. Questa ipotesi non si è rivelata del tutto corretta perché le indicazioni positive sono ridotte rispetto alla lunga pars destruens, tuttavia, alla fine non mi sono pentito della scelta.

Al di là del gioco con il “non”, l’intento esplicito del libro è ben più ristretto del discutere i modi dell’insegnamento della filosofia: intanto, pone il problema quasi esclusivamente in riferimento alle scuole superiori e poi focalizza l’attenzione sulla critica di quel modo di insegnare che ha il suo perno nel manuale di storia della filosofia. Mugnai sta insomma criticando quel modo di insegnare la filosofia che consiste (o che tende a consistere) nell’esposizione, da parte del docente, di un manuale di storia della filosofia e nella richiesta allo studente di apprendere i contenuti di tale manuale.

Scrivendo il periodo precedente, mi sono reso conto che in realtà Mugnai non mette al centro del suo discorso né il docente, né lo studente, bensì soprattutto il manuale. Ovviamente, sa bene che uno stesso manuale può poi essere usato in modi diversi da docenti diversi e che sono diverse le cose che ciascuno e ciascuna può poi chiedere ai suoi studenti, tuttavia, non parte da uno studio (a cui può certamente seguire una critica) delle effettive pratiche all’interno di cui i manuali sono usati. A questo proposito, mi torna in mente il professore di filosofia che ho avuto al quarto e al quinto anno del liceo: lui non spiegava il manuale che aveva adottato, ma sviluppava, ogni anno, una sorta di percorso tematico che prevedeva la lettura e il commento di alcuni testi e il riferimento a vari autori e autrici la conoscenza generali dei quali era affidata al nostro lavoro sul manuale e sul dizionario filosofico, da svolgersi a casa. Ad esempio, al quinto anno aveva svolto un percorso sul tema dell’alienazione che partiva da Marx e poi tornava indietro a Hegel e a Fichte e poi andava a Kierkegaard, Lukács ecc. Era un tipo di insegnamento che chiedeva agli studenti di diventare molto attivi, non solo in classe, ma anche a casa, nell’organizzazione dello studio. Con questo ricordo, comunque, non voglio negare che in moltissimi casi le forme dell’insegnamento e dell’apprendimento atteso possano assomigliare a una sorta di recitazione del manuale. Mugnai, d’altronde, dà una risposta a chi obietta che «il ministero autorizza il singolo docente a fare una scelta tra gli autori che devono essere studiati»: «il problema allora diventa il carattere aleatorio e del tutto soggettivo della scelta. In questo modo, lo studente diventa preda del caso, ossia del fatto che gli venga assegnato o meno un bravo insegnante» (p. 64). Per arginare gli effetti negativi di questo tipo di caso, Mugnai si rivolge al design istituzionale e in particolare alla progettazione di un buon manuale: la speranza è che questo induca le corrispondenti buone pratiche d’uso.

La tesi del libro è che un buon manuale non possa avere la forma di una storia della filosofia, improntata al doppio ideale della messa in contesto storicistica e della completezza. L’ideale della completezza produce manuali elefantiaci pieni di nomi di autori cui inevitabilmente finisce per essere associata una descrizione stringata ed elementare del loro pensiero. L’ideale della messa in contesto storicistica finisce per sfavorire l’esposizione dei nessi interni del discorso di un filosofo e dunque a maggior ragione la discussione della validità delle sue tesi, per fare invece spazio alla ricostruzione delle influenze che ha subito.

Devo ammettere che anche su questo fronte sono stato piuttosto fortunato: non solo non mi è successo al liceo, ma neppure all’università ho dovuto attraversare la palude storicistica evocata e criticata da Mugnai. Molto efficace è in proposito la seguente pagina: «Al tempo in cui studiavo all’Università di Firenze, nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso, sotto l’influenza dell’insegnamento di Garin [la cui idea di storia della filosofia è richiamata e criticata nelle pagine precedenti del libro], predominava, presso la facoltà di Lettere e filosofia, una concezione storiografica assai curiosa. Siccome non c’è filosofo che non dipenda dal contesto storico nel quale si è trovato a operare e poiché tale contesto è costituito da una fitta trama di pensatori “minori”, rovesciando una celebre metafora ci si era convinti che i giganti, in fondo, poggiassero sulle spalle di nani e che perciò, per comprendere i giganti, bisognasse prima studiare i nani. Il grande pensatore svaporava dietro una cortina di personaggi pressoché sconosciuti» (p. 61). È effettivamente agghiacciante. E lo è tanto nel caso in cui sia un corso universitario che privilegia tali autori minori a dispetto di quelli importanti che da questi sarebbero stati influenzati, quanto nel caso che a questi minori sia indirizzato un laureando: in entrambi i casi, abbiamo dei giovani il cui tempo è dirottato lontano dai pensatori e pensatrici che potrebbero nutrirli. Questi autori “minori” vanno dunque dimenticati? Non trarrei questa conclusione: a un certo livello, il lavoro di ricerca di un docente può indirizzarsi dove vuole e non è impossibile che da lì possa anche nutrire l’insegnamento di quei filosofi e filosofe che, vuoi per la loro originalità, vuoi per la forza del loro pensiero, vuoi per altre virtù teoriche, possono risultare immediatamente formativi e non solo grazie alla loro influenza su qualcun altro.

Sul confronto tra Mugnai e lo storicismo tornerò tra poco, ma prima vorrei sottolineare che la «concezione storiografica assai curiosa» appena evocata, per quanto meriti le critiche che le sono rivolte, difficilmente rappresenta il problema che caratterizza l’insegnamento della filosofia alle superiori. Lo stesso elenco di autori che Mugnai ricava dal manuale “Il gusto del pensare” a cura di Maurizio Ferraris e di alcuni suoi collaboratori, un elenco che Mugnai cita per esemplificare gli effetti deleteri dell’horror vacui e dell’ideale della completezza, non comprende nessun “minore” nel senso implicito nella pagina poc’anzi citata sugli anni Sessanta all’Università di Firenze. Faccio un esempio: in questo elenco c’è anche Ernst Cassirer; ora Cassirer non è un minore nel senso per cui può interessare solo per la sua discussione con Heidegger a Davos, d’altro canto, c’è un senso in cui Mugnai avrebbe ragione a prenderlo come esempio di uno degli autori di troppo “presentati” in quel manuale. Incontestabile il suo posto in una storia della filosofia universitaria, discutibile includerlo in un manuale liceale.

Qualcuno potrebbe protestare chiedendo perché togliere proprio il capitolo su Cassirer, ma sarebbe una protesta che manca il punto: il problema non è Cassirer, è che il terzo volume del manuale citato è di 826 pagine e che 52 autori sono comunque troppi. A differenza di Mugnai, io non ho visionato questo manuale, ma sarei pronto a scommettere che non c’è un capitolo su ciascuno di questi autori, probabilmente neppure su Cassirer: su di lui ci sarà, se va bene, un paragrafo, altrimenti qualche riga in un paragrafo sulla filosofia tedesca dei primi decenni del XX secolo. Ebbene, queste poche righe imposte dall’ideale immaginario della completezza non hanno nessun valore rispetto al progetto di insegnare la filosofia alle superiori.

Questo è l’effetto negativo che lo storicismo ha sul modo in cui si insegna filosofia alle superiori, non quello che ha avuto sul modo in cui era organizzato l’insegnamento della filosofia nell’Università di Firenze a metà degli anni Sessanta. E Mugnai ne è del tutto consapevole, infatti scrive: «Che senso può avere, infatti, infarcire la testa di giovani che si affacciano al mondo d’oggi con sfilze di nomi e successioni più o meno ordinate di strani individui che sostengono cose perlopiù bizzarre ai loro occhi, senza dar modo di comprendere in maniera adeguata quel che stanno studiando? Così si passa in fretta da quel tale che crede nel mondo delle idee a quello dell’io penso, a quell’altro che crede che ci siano le monadi […]» (p. 20). Come non essere d’accordo?

Tra coloro che sarebbero d’accordo ci sono anche Hegel e Gentile e, temporalmente più vicino a noi, Emanuele Severino. Ricordo quest’ultimo perché Mugnai lo cita solo per dire che il suo stile è preso a modello da alcuni studenti che si lanciano in «esilaranti esternazioni filosofiche» (p. 14). La cosa mi ha sorpreso perché la storia della filosofia scritta da Severino cerca proprio di evitare il problema icasticamente evidenziato da Mugnai. Il tentativo di Severino, un po’ come quello di Habermas nelle sue lezioni sulla filosofia post-hegeliana (d’altronde, entrambi si ispirano più o meno latamente al modello delle lezioni di storia della filosofia di Hegel), vorrebbe evitare tanto lo storicismo, quanto la cancellazione della storia della filosofia. L’idea che lo sorregge non è quella del grappolo di problemi eterni della filosofia, intorno a cui disporre i tentativi di soluzione dei classici, magari per aggiungerci poi quelli dei contemporanei. L’idea è piuttosto che vi sono epoche caratterizzate dal fatto che, in ciascuna, una certa questione si impone sulle altre ed eventualmente le riordina a sé e che i vari pensatori si confrontano con essa e, grosso modo, tra loro. Ricostruzioni di questo tipo hanno naturalmente dei costi: se al centro della filosofia moderna si mette il problema epistemologico del dualismo tra pensiero e realtà, altre vicende, ad esempio quella del contrattualismo politico, si spostano sullo sfondo (anche se non completamente, visto che la presunta irrealtà del bene e del giusto è determinante nella costruzione contrattualista di Hobbes). Tuttavia, i vari autori smettono di essere delle isole da trattare in capitoli successivi e abbastanza indipendenti. Le «cose» sostenute da ciascuno appaiono un po’ meno bizzarre perché sono collegate al problema che ha reso urgente pensarle e forse ha persino dato loro una qualche necessità.

Questo tipo di storia della filosofia rientra tra gli obiettivi polemici di Garin, mentre non mi pare colpito dalle obiezioni di Mugnai. Non è uno storicismo che dissolve i nessi concettuali nell’accidentalità dei fatti e delle influenze. D’altronde non è neppure quella concezione astorica della filosofia per cui questa sarebbe, non certo una conversazione à la Rorty, bensì una discussione argomentativa su alcuni problemi tanto astratti quanto persistenti, una discussione cui bisogna partecipare in prima persona, ma rispetto alla quale non è senza utilità conoscere gli antichi tentativi di soluzione.

A Mugnai sta a cuore una differenza che lascia formulare a Timothy Williamson: «c’è una differenza tra il presentare una teoria come qualcosa che alcuni filosofi hanno sostenuto e il presentarla come vera». È una differenza molto importante anche per me e a cui anche io cerco di dare un ruolo nel mio insegnamento. Per tenerne conto, tuttavia, bisogna, a mio parere, articolarla ulteriormente. La prima opzione va a sua volta sdoppiata: da un lato, c’è la dossografia, cioè la mera narrazione del discorso di un filosofo (“ha sostenuto questo e quello; nel sostenere questo è stato influenzato da X; per arrivare a dire quello ha preso a modello il modo di argomentare di Y; ecc.”), dall’altro lato, c’è l’esposizione del modo in cui un filosofo ha affrontato un certo problema che lo ha investito, cioè che non ha inventato. In questo secondo caso, la prima cosa da fare è introdurre il problema, quindi i modi in cui il filosofo in questione lo ha rielaborato e infine come ha costruito la sua risposta, mostrando che cosa rende ragione di tale risposta: non si tratta solo di mostrare la giustificazione che ha offerto delle sue tesi, ma anche di come ha costruito gli standard di giustificazione cui poi ha tentato di attenersi. Si tratta insomma di mostrare come la filosofia finisca sì per essere un’opera collettiva (cfr. p. 31), ma essendo anche fatta da singolarità ciascuna delle quali tende a ridisegnare la cornice del gioco in cui si appresta a fare la sua mossa.

Ma anche la seconda opzione distinta da Williamson va articolata. Credo anche io che sia molto importante far accedere gli studenti e le studentesse alla responsabilità epistemica che si esercita quando si avanza una tesi e non ci si limita a menzionare la tesi di un altro o di un’altra. Autorizzarsi ad asserire è importantissimo e dunque bisogna coltivare le sue condizioni di possibilità, ad esempio un certo coraggio, una certa idea di libertà come quella elaborata da Tagore (cfr. p. 169). D’altro canto, e come accennavo poco fa, per me è importante che l’asserzione non sia solo ponderata, cioè insomma ben argomentata, ma che anche risponda a una necessità teorica e questo richiede di coltivare la capacità di cogliere questa necessità. Non si tratta solo dell’urgenza di una questione, ma di quel suo modo di investirci che la fa staccare dal semplice elenco delle questioni oggi aperte o oggi ancora aperte. Forse Mugnai storcerebbe il naso di fronte a questa idea, ma per me è molto importante che l’esercizio filosofico non sia solo un estemporaneo, per quanto ben argomentato, intervenire su una delle questioni aperte nel salotto dei filosofi. Non mi ritrovo per nulla in quella rappresentazione per cui ci sarebbe un elenco di questioni sul tappeto («si tratta di questioni che emergono continuamente dai giornali, dai dibattiti televisivi e dai social, come, per esempio, la legittimità dell’eutanasia e dell’aborto, il diritto all’accoglienza da parte dei migranti, l’uso delle armi da parte di semplici civili […]» - p. 171) e il sapere filosofico consisterebbe nel saper argomentare approfonditamente una risposta. A me sembra che la filosofia cominci sempre reintroducendo criticamente e dunque in parte anche ridefinendo i termini del problema, di un problema da cui si è sufficientemente toccati o affetti da volersi imbarcare nel lungo lavoro che tale reintroduzione comporta. Per questo, quando insegno, pur organizzando sempre, in vari momenti, qualche lezione in forma di discussione, per “dissodare il terreno”, preferisco costruire il corso come lettura di un qualche classico: affinché gli studenti, mentre apprendono questa o quell’argomentazione, familiarizzino con la responsabilità epistemica per come è esemplificata dall’autore o dall’autrice di quel testo classico.

Sono d’accordo con Mugnai sull’importanza di non crescere studenti che sappiano solo raccontare i pensieri di altri: bisogna che arrivino ad autorizzarsi a parlare in prima persona. Ma non solo per rispondere a nome proprio al presunto “stesso problema” cui avrebbe risposto anche Aristotele, né tantomeno per rispondere al problema formulato e discusso da giornalisti e membri di social network, bensì per riformulare quel problema o formulare il problema da cui sono interrogati, proprio come aveva fatto Aristotele.

Questo è grosso modo ciò che orienta il mio modo di organizzare l’insegnamento della filosofia, dove non ha alcun peso l’ideale immaginario della completezza. Tra i vari riferimenti di Mugnai, ho sentito consonante quello che fa a pagina 62, quando cita uno studioso di Abelardo, John Marenbon, secondo cui la lettura di un testo filosofico deve muoversi su quattro dimensioni temporali: il presente in cui il filosofo o la filosofa scrive, il suo passato, con cui si confronta e da cui è influenzato, il suo futuro, cioè il modo in cui è stato recepito il suo pensiero e infine il nostro presente, con gli strumenti concettuali di cui disponiamo, ma anche con i nodi che dobbiamo tradurre in questioni.

Da quanto ho detto fino a qui, credo si capisca il mio forte accordo con Mugnai contro lo storicismo. Per lui, però, sbarazzarsi dello storicismo significa sostanzialmente sbarazzarsi della storia della filosofia, con due precisazioni: una storia della filosofia, storicisticamente intesa, è per lui ammissibile come una parte della storia dei fenomeni culturali e come un contributo strumentalmente utile allo studio di alcuni classici, studio che resta utile anche per chi fa filosofia perché nelle loro opere possiamo trovare strategie teoriche ancora interessanti per affrontare quei loro problemi che sono ancora aperti oggi. (L’idea è che se può ancora essere significativo leggere Platone, allora è utile che qualche storico della filosofia ci aiuti a capire come intendere i termini del discorso platonico). Per me invece, non solo la filosofia non si riduce a quel che appare nella rappresentazione storicista della storia della filosofia, ma neppure la storia della filosofia si riduce a quel che appare in quella rappresentazione. Senza arrivare a sostenere, con Hegel, che tutta la storia della filosofia è un grande organismo, credo che vi siano questioni che acquisiscono una particolare preminenza storica e intorno a cui si organizzino sequenze di discussione e di corpo a copro teorico abbastanza organiche. Questo è ciò che ho accennato poco fa. Vorrei ora aggiungere una cosa che potrebbe apparire una minimale concessione allo storicismo, perlomeno nel senso che, per esporla, potrei fare mie alcune delle frase di Garin citate da Mugnai.

Garin si oppone alla “dialettica interna del pensiero filosofico”, cioè a quella concezione della storia della filosofia che associa all’immagine della partogenesi di idee da idee (cfr. p. 52), per difendere uno studio della storia della filosofia capace di cogliere «i “salti”, le discontinuità e le incoerenze» per poi «sanare le rotture “logiche” attraverso l’indicazione dell’insorgenza di determinate pratiche e di “motivi reali” che operarono nello sviluppo e nella determinazione del pensiero dei vari filosofi» (cfr. p. 54). Ora, queste frasi descrivono un programma di ricerca che non si può ridurre allo studio delle influenze di qualche filosofo minore sui filosofi maggiori, né tantomento allo studio della biografia dei filosofi, come sembra suggerire Santambrogio nella costruzione della sua obiezione (cfr. p. 56). Che lo storicismo sia diventato queste cose, non lo voglio discutere, mi interessa solo recuperare una delle istanze originarie, cioè lo studio della surdeterminazione della pratica filosofica da parte di altre pratiche storico-sociali. Non si tratta di andare a vedere che cosa c’era nella biblioteca di Kant o di Hobbes, ma ad esempio di capire quale processo storico-culturale e sociale possa aver contribuito al fatto che per Hobbes sia apparsa come un’evidenza una nozione di individuo che fino a qualche secolo prima sarebbe apparsa un’astrazione aberrante. Questo tipo di studio si regge su una concezione ben determinata di che cosa sia un concetto, che non è un mero contenuto mentale la storia della cui insorgenza si ridurrebbe alla storia di come sia passato dalla mente del suo inventore alla mente di altri (per cui chiedersi come sia arrivato a Hobbes equivarrebbe a cercare l’individuo che l’ha passato a Hobbes). Ovviamente, questo tipo di approccio non funziona allo stesso modo con ogni forma assunta dalla pratica filosofica nella storia. Ad esempio, la riflessione sul problema della dimostrabilità dell’esistenza di Dio (oppure dell'immortalità dell'anima) si trasforma dal XIII al XVII secolo anche per come si trasforma la società, pur restando in entrambi i momenti un problema dotato di una certa urgenza e necessità. Non so se valga lo stesso per l’attuale dibattito di filosofia della religione che, formalmente, riguarda lo stesso tema e che impegna un certo numero di professori sparsi per il mondo. Può darsi che abbia trovato una nuova necessità, ma potrebbe anche essere una semplice sopravvivenza: un problema in sé intellegibile che viene ancora trascelto da qualche professore all’interno di un ideale elenco di questioni cui è legittimo dedicarsi se si fa parte della tribù dei filosofi.

 

La mia riflessione sui modi dell’insegnamento della filosofia è riferita all’insegnamento universitario, mentre Mugnai sta pensando innanzitutto a quello nelle scuole superiori. Sebbene, come Mugnai stesso riconosce, vi siano dei rapporti tra le due questioni, vi sono anche importanti differenze. Se si ritiene che una qualche capacità di pensare filosoficamente sia un ingrediente importante nella formazione dei giovani tra i sedici e i diciotto anni, allora bisogna anche chiedersi come trasporre negli spazi e nei tempi delle scuole superiori il tipo di iniziazione alla filosofia cui accennavo ora. D’altronde, penso che in quel caso, tale iniziazione vada integrata anche con qualcosa di un po’ diverso che forse potrebbe essere simile a ciò che promuove Mugnai, cioè la messa a disposizione di alcuni strumenti concettuali e argomentativi per affinare la propria riflessione su alcune questioni che godono di una certa “attualità”, ma che hanno implicazioni che arrivano a toccare i fondamenti. Detto altrimenti, per quanto la filosofia non si riduca al saper argomentare bene la propria opinione sull’uso delle armi da parte dei civili ecc., ha a che fare anche con questa capacità e nella formazione secondaria questo potrebbe essere particolarmente (ma non esclusivamente) importante. Sono d’accordo con Mugnai sul fatto che recitare il manuale di storia della filosofia non sia una via efficace per acquisire questa capacità. Ma lo sono anche sul fatto che non sia un buon rimedio ai difetti di quel tipo di storia della filosofia, integrare il manuale con raffazzonati tentativi di “catturare” l’attenzione dei giovani con riferimenti pop a film o a serie che sono sempre già invecchiati. Al di là di queste tesi che mi paiono condivisibili, però, sospendo il giudizio sui consigli positivi che Mugnai offre in vista della scrittura di un nuovo tipo di manuale di filosofia che dovrebbe contribuire in maniera importante a riformare l’insegnamento della filosofia alle superiori: è un problema importante e sarebbe interessante che questo libro contribuisse ad aprire un serio dibattito in proposito, un dibattito cui dovrebbero senz’altro partecipare anche i docenti di filosofia delle superiori.

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