In memoria di Mario Ruggenini

20 gennaio 2021

 

 Mario Ruggenini insegnava a Venezia. Io ho seguito il suo corso di Ermeneutica filosofica e poi alcuni dei seminari che lui organizzava e dirigeva. Ho appena saputo della sua morte e vorrei provare a scrivere qualcosa per ricordarlo. Stavo per scrivere: “per ricordarlo e per ringraziarlo”, ma sarebbe stato affrettato. Come lui stesso mi ha detto un giorno. Forse posso proprio cominciare da lì. Sarà stato una decina di anni fa. Credo sia l’ultima volta che abbiamo parlato insieme, anche se l’ho poi ascoltato ancora nel 2012 in un convegno dedicato a Severino. Per raccontare questo episodio, però, devo fare una premessa.


   Mi era dispiaciuto non aver potuto seguire la sua lectio magistralis e soprattutto aver saputo che qualcuno aveva insinuato, con la solita malevolenza, che assenze come la mia non fossero casuali, così avevo il desiderio, non appena se ne fosse data l’occasione, di significargli in qualche modo la mia riconoscenza per il suo corso. Ma interloquire con Ruggenini non era affatto una cosa semplice. Provava un certo qual divertimento a mettere un po’ a disagio gli studenti. Soprattutto i dottorandi che non lavoravano con lui. Io soffrivo il suo sarcasmo meno di altri, ma non era piacevole per nessuno. Una volta un amico mi disse: “il giorno che dovrai portare il tuo libro in regalo a Ruggenini, metti in conto che non sarà un momento di leggerezza”. Ecco, dunque, che quella famosa occasione in cui ringraziarlo, la attendevo, ma anche la temevo. Si è presentata, o così ho creduto, in un luogo insolito: quella specie di sgabuzzino in cui c’era la macchina fotocopiatrice. Io ero lì con dei volumi di rivista in cui cercavo qualche articolo e lui è entrato per fotocopiare un documento. Forse aveva bisogno di fare un fronte-retro, forse doveva rimpicciolire, ma di fatto mi chiese se sapevo aiutarlo. L’aperto sorriso con cui poi mi ringraziò, mi fece pensare che il momento era venuto e così azzardai: “si figuri professore, con tutto quello che lei ha insegnato a me!”. Errore madornale. Si voltò, era un uomo piuttosto alto e corpulento, e mi disse: “eh no, caro Fanciullacci, quello vale ben più che una fotocopia”. Aveva ovviamente ragione.

D’accordo, parlare a Ruggenini non era facile, ma dire bene la propria riconoscenza a chi ci ha insegnato qualcosa lo è ancora di meno. Conosco qualcuno, ma in realtà non è un esempio solitario, che lo vive come un problema di debiti da pagare che finisce per dar luogo a un groviglio di misurazioni di quel che deve all’altro e di quel che invece può legittimamente attribuire a sé. Un vero strazio da cui distogliere lo sguardo per pudore. Ma gli esempi positivi cui ispirarsi non sono molti. Tanto più che, anche solo stando a ciò che ho saputo direttamente da amici o conoscenti, non sono pochi i casi in cui qualcuno ha chiuso i rapporti con qualcun altro perché non si è sentito adeguatamente ringraziato da lui. Insomma, è un nodo da non considerare con sufficienza. E che non riguarda solo i rapporti tra maschi.

Questo nodo mi riporta ancora a Ruggenini e ai miei anni di studio a Ca’ Foscari. Probabilmente era un caso, ma di fatto succedeva che Severino facesse lezione nel primo semestre, dunque in autunno, mentre quasi tutti quelli che furono i suoi primi allievi lo facevano nel secondo. Questa distribuzione, me ne accorgo ora, funzionava come un setting che favoriva un grappolo di esperienze molto importanti. Innanzitutto, e questo era piuttosto chiaro, l’esperienza della discussione filosofica, anzi delle sue varie forme. La discussione filosofica prende di rado la forma che troviamo raccontata sui manuali, quella del dialogo in presenza, con una sequenza di botta e risposta. Perlopiù, ciascuno si confronta con l’altro in sua assenza, meditando su e riformulando ciò che del suo discorso lo ha colpito, fosse anche l’obiezione che quello gli ha rivolto. È così che, per usare una formula che tornava spesso nelle lezioni di Ruggenini, il discorso dell’altro ci dà da pensare. E così noi studenti, usciti perlopiù galvanizzati dal corso di Severino, talvolta in piena identificazione immaginaria, ma comunque mai indifferenti, nel secondo semestre facevamo esperienza di che cosa può significare rispondere. Incontravamo pensieri e percorsi che erano stati certamente segnati dal magistero severiniano e che in vario modo rispondevano a questo segno. Molti di noi, come i cagnolini di cui parla Platone nella Repubblica, cercavano le obiezioni a Severino, per metterle subito alla prova e forse per farle a brandelli. Ma l’obiezione non è l’unica forma di risposta e soprattutto può scaturire da atteggiamenti di fondo molto diversi. Allora non avevamo le parole per dirlo e dunque gli occhi per vederlo: capitava al massimo di urtare contro queste differenze. Oggi le so capire. E mi rendo conto che alcune delle parole che uso per distinguerle le ho imparate da Ruggenini. Ad esempio, quando diceva: “se qualcuno mi dice che sono in contraddizione, gli dico: raccontamela un po’ più lunga”, che era un invito a prendere più sul serio sia il proprio obiettare, sia il discorso dell’altro e il problema della sua comprensione. Ancor oggi, se mi arriva un’obiezione quando non ho ancora finito di formulare una frase, mi viene in mentre quella battuta. Ruggenini insisteva sul fatto che le parole non sono trasparenti e tra i banchi o nel cortile c’era sia chi commentava che era la scoperta dell’acqua calda, sia chi invece ribatteva, citando Wittgenstein, che non siamo sempre lì a interpretare. Lo ricordo perché sono passato anche io per entrambe le posizioni. E sono entrambe superficiali. C’è un’opacità delle parole, quelle altrui, ma anche le proprie, che davvero non va dimenticata, solo che non basta una frase come questa per ricordarla: ricordarla, tenerne conto, “non obliarla” significa trovare una concreta pratica dell’ascolto. Assumersi la responsabilità della propria interpretazione delle parole, proprie o altrui, non è un atto mentale puntuale, ma una trasformazione del proprio atteggiamento profondo verso gli altri, se stessi e il mondo. Così io oggi sono arrivato a intendere una delle lezioni di Ruggenini, anche se devo ammettere, e lo faccio volentieri, che non ci sono arrivato solo meditando sulle sue parole. L’idea di pratica che ho appena evocato, pratica come esercizio spirituale e come processo di trasformazione di sé, non l’ho trovata nelle sue lezioni. Forse c’era, visto che è tanto importante per Heidegger e Ruggenini pensava con Heidegger. Se è così, allora non la registrai: di fatto, a me è arrivata attraverso altri percorsi.


 Torno a quei semestri invernal-primaverili e a quei modi di rispondere a Severino che, più profondamente, lo capisco ora, esemplificavano dei modi di avere a che fare con la sua eredità. Tra gli studenti, tendenzialmente, si oscillava tra chi cercava ossessivamente di formulare l’obiezione decisiva a Severino e chi si faceva severiniano e attaccava ogni discorso riportandolo alla scacchiera del maestro, anche se mi piace ricordare la posizione eccezionale di un mio amico che adesso è diventato un filosofo analitico importante: lui cercava di risolvere il problema che impegnava in quegli anni lo stesso Severino e che ha poi preso il nome di “risoluzione di Destino della necessità”. Serbo ancora memoria dell’ammirazione che provammo di fronte al suo coraggio. Ad ogni modo, i professori che incontravamo nel secondo semestre ci offrivano esempi di altre posizioni simboliche. Qualcuno di noi era deluso, altri non capivano, ma quasi tutti alla fine apprezzavamo, in maniera più o meno consapevole, la possibilità di incontrare altre problematiche, altri concetti, altri nomi, altri approcci. Di quei vari modi di avere a che fare, di sbrogliarsela, con l’eredità di Severino, ne ricorderò tre.

Il primo era quello di Carmelo Vigna. Il suo corso di etica cominciava sempre con una parte di ontologia in cui trovavano spazio anche alcune discussioni di Severino. Vigna aveva elaborato negli anni alcune obiezioni a Severino, sul suo modo di intendere l’essere, sulla sua ermeneutica del divenire, sulla sua teoria della fede ecc. Quando il discorso portava da quelle parti, ce le esponeva, ci diceva dove potevamo trovarle articolate in dettaglio se ci interessavano e si rendeva disponibile a discuterle. Dopodiché, procedeva oltre. Qualcuno era convinto dalle sue obiezioni, qualcuno no, ma la cosa che colpiva era la serenità. Non so quali fossero i rapporti personali che allora Vigna aveva con il suo antico maestro, ma di certo l’impressione era che aveva saputo dargli un posto simbolico, con la riconoscenza e con la discussione, e che ora era libero di procedere.

Il secondo modo era quello di Galimberti. Galimberti aveva un vero amore per Severino. Non c’era però identificazione immaginaria, ma un transfer produttivo. Ci diceva: “A differenza dei miei compagni di università, io ho capito subito che Severino è imbattibile, per cui mi sono dedicato ad altro”. E con questa mossa si autorizzava a parlarci di autori o di approcci che, facilmente, non avremmo incontrato altrimenti. La sua grande ammirazione per Severino era sincera (anche se sapeva scherzare su come talvolta la testimoniava), ma l’aveva elaborata in un modo che gli consentiva di dedicarsi poi ad altro. E di mostrare a noi che c’era anche dell’altro, tra cui il peccato mortale per i severiniani, cioè l’ibridazione della filosofia con le scienze umane e sociali.

Il terzo modo di avere a che fare con l’eredità severiniana che voglio ora ricordare è proprio quello di Ruggenini. Descriverlo non è facile, eppure c’è qualcosa che ricordo molto bene: Severino non era quasi mai citato e tuttavia non c’era corso in cui non fosse più presente. Una presenza spettrale che soprattutto durante il primo mese rendeva l’atmosfera piuttosto tesa. Una volta stava formulando una delle sue tesi più importanti e, come spesso faceva, la formulava per contrapposizione o differenziazione: “siete abituati a chiedere anche della parola, se sia un ente o se sia un nulla, ma la parola non è un ente, è un evento”. Io alzai la mano e obiettai che però, quando Severino pone quella domanda, usa “ente” in una accezione che include anche gli eventi. La sua reazione, lì per lì e per tutto il corso, e anche un po’ dopo, mi fece pentire di aver parlato. Sostanzialmente, comunque, e lasciando da parte il resto, disse che eravamo noi, in quel caso io, e nient’affatto lui, che avevamo sempre in testa Severino e che riportavamo ogni discorso al suo. C’era del vero, ma forse non era tutta la verità.

Nel mio ricordo, il corso di ermeneutica era condizionato o, meglio, surdeterminato, da una lotta per smarcarsi dalla forma mentis severiniana, che talvolta sembrava finire in una semplice disposizione diversa delle stesse pedine. Ed è un vero peccato perché alcune delle cose che a Ruggenini stavano a cuore e che è comunque riuscito a indicarci sono davvero importanti. E tra esse anche il fatto che non né ovvio, né innocente cominciare chiedendosi: è un ente o è nulla? O che non è poi così semplice cogliere in contraddizione un pensiero vivo. Sono insegnamenti che ritrovo in me e che mi trovo a ritrasmettere. E forse è questo un buon modo di essergli riconoscente.

 

                                                                                                                     Riccardo Fanciullacci

 

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