Sulla differenza tra Doxa ed Epistéme (secondo Emanuele Severino)

In memoriam di Emanuele Severino


La cronaca politica recente ha portato sotto le luci della ribalta l'antica distinzione filosofica tra doxa ed epistéme. Esplicitamente elaborata da Platone, si tratta di una distinzione che ha assunto una portata più ampia: c'è insomma chi ricorre ad essa per interpretare anche i discorsi di altri filosofi che non usano esplicitamente quelle due parole o che comunque non usano solo quelle per pensare le forme del sapere. Tra coloro che più hanno valorizzato quella distinzione, c'è anche il filosofo italiano Emanuele Severino che ne fa una distinzione categoriale necessaria per capire tutta la filosofia antica e, in realtà, anche la filosofia successiva. Poiché Severino è scomparso recentemente, ma soprattutto perché l'esperienza dei suoi corsi, che ho fatto a Venezia, è qualcosa per cui gli sarò sempre grato, ho pensato di dedicare il post di oggi alla sua interpretazione di quella distinzione. (Per chi fosse interessato, ho scritto alcune pagine in memoria di Severino: La necessità della filosofia. Per Emanuele Severino).
      Cominciando dall'ipotesi etimologica che Severino propone per la parola "epistéme", espongo l'idea che a suo parere tale parola vuole designare: si tratta dell'idea di sapere innegabile, un'idea inaudita prima della nascita della filosofia, cioè un'idea che dobbiamo alla filosofia. Secondo Severino, non solo la filosofia avrebbe definito questa idea, ma l'avrebbe anche usata per pensare il suo proprio statuto epistemologico: la filosofia si presenterebbe cioè come sapere innegabile, dunque a una distanza infinita dalle doxai, cioè dalle affermazioni che non sapendo mostrare la loro presunta verità, tanto si oppongono l'una all'altra, quanto anche si giustappongono e accostano l'una all'altra perché nessuna sa davvero imporsi sulle altre.
      A questa interpretazione severiniana della filosofia classica oppongo una osservazione critica, mentre non discuto quel suo ulteriore sviluppo che consiste nell'interpretazione severiniana della filosofia successiva a quella antica, in particolare della filosofia moderna e contemporanea. Accenno a tale sviluppo nella nota qui di seguito. 
Emanuele Severino (1929-2020)

Una nota sull'interpretazione severiniana della parabola della filosofia moderna e contemporanea.
Ebbene, il punto sarebbe che l'elaborazione dell'epistéme accade a sua volta all'interno di un quadro più ampio in cui l'evidenza più profonda sarebbe quella relativa al divenire: poiché le cose divengono, sarebbe stata edificata l'epistéme che, da un lato, protegge tale evidenza (affermandola come innegabile), ma dall'altro tenta di addomesticarne le conseguenze (affermando che c'è dell'indiveniente, dell'immutabile). In effetti, se c'è qualcosa che non diviene, allora il divenire non riguarda tutto e dunque non è vero neppure che qualunque cosa può entrare in scena e sorprenderci, ad esempio, non potrà mai entrare in scena il divenire-dell'-indiveniente, o la negazione efficace dell'innegabile. Ora, per Severino, la storia della filosofia è il gigantesco tentativo di realizzare la conciliazione tra queste due cose, l'affermazione più radicale del divenire e il tentativo di addomesticarlo (o, come dice più precisamente Severino, di dominarlo: è infatti una forma di dominio sapere in anticipo che qualunque cosa stia per arrivare, essa comunque non sarà la scomparsa dell'immutabile o la negazione efficace dell'innegabile). 
        La filosofia autenticamente contemporanea sarebbe, per Severino, quella filosofia che rinuncierebbe a tale conciliazione perché si accorgerebbe che l'affermazione del divenire non ammette l'affermazione di alcun immutabile. Da qui il relativismo, lo storicismo, il debolismo che caratterizzerebbero l'anima essenziale della filosofia contemporanea. Terminata questa interpretazione della parabola della filosofia, Severino compie due mosse. La prima è una sorta di proposta: propone alla filosofia contemporanea una trasformazione che la renderebbe più coerente e più forte, che la farebbe "andare in sé". Si tratterebbe di riconoscere che l'affermazione del divenire non è affatto relativa o debole o incerta, ma anzi è l'unica affermazione epistemica: sarebbe proprio per salvaguardare la verità di questa affermazione che tutte le altre dovrebbero essere abbassate allo status di interpretazioni relative, deboli e incerte. 
       La seconda mossa consiste nel mettere in questione la presunta evidenza suprema dell'Occidente, cioè l'evidenza del divenire, e dunque consisterebbe nel portarsi nel sottosuolo dell'Occidente. Da qui prende le mosse il discorso filosofico propriamente severiniano, quello che nega che il divenire sia un'evidenza e anzi afferma che è solo il contenuto di una fede, un contenuto assurdo e impensabile che fa di quella fede una follia. Per nominare questo discorso, Severino rinuncia alla parola epistéme, ma ne adotta un'altra etimologicamente legata, ma non compromessa con l'affermazione del divenire, la parola destino.

Video 1: Il significato filosofico dell'epistéme: il sapere innegabile
Qui espongo il modo in cui Severino enuclea il significato che alla parola epistéme viene impresso dalla filosofia antica, quello per cui indica il sapere innegabile. Chiarisco questa idea evocando la difesa aristotelica del Principio di non contraddizione.

Video 2: Che cosa la filosofia chiama "doxa"
Nella lettura di Severino, "doxa" è il nome che i filosofi antichi, a partire da Parmenide, usano per indicare ciò che i non filosofi pretendono che sia sapere o comunque verità e che invece consiste solo in contenuti cui si aderisce (o che sono tenuti fermi) senza avere ragioni davvero forti che rendano tale adesione giustificata (ossia che giustifichino quel tenerli fermi). E, nella lettura severiniana, una af-fermazione è giustificata solo se mostra l'impossibilità che sia vera la sua negazione. Le doxai sono dunque le opinioni dove opinare è pretendere che qualcosa sia così, solo perchè sembra così: opinare è dunque dar voce a quel che sembra, ma come se fosse un rivelarsi di quel che è, là dove quel che sembra potrebbe anche essere solo un'illusione. In un caso soltanto, la pretesa di dire quel che è riesce ad assicurarsi del tutto dal rischio di essere il dar voce a un'illusione: è il caso in cui mostra l'impossibilità della sua negazione (cioè il caso in cui mostra che è impossibile che la verità sia altro da quanto quella pretesa afferma che sia), ma in questo caso quella pretesa non è doxa, bensì epistéme.

Video 3: Sul rapporto tra epistéme e totalità
Il sapere epistemico, in quanto innegabile, tiene in vista la totalità, perlomeno in questo senso: pretende di valere in ogni anfratto della realtà, ossia pretende che in nessun luogo, reale o ideale, si annidi una sua negazione efficace (si legga in proposito la pagina che riporto qui sotto). Questo nesso tra epistéme e totalità non implica affatto la pretesa che ci possa essere sapere epistemico di ogni parte o regione della realtà. In effetti, un conto è dire che non c'è una regione della realtà che smentisca l'epistéme, un altro è dire che la conoscenza di qualunque regione della realtà possa essere una conoscenza epistemica.

Video 4: Per i filosofi classici la filosofia coincide con l'epistéme?
In questo video formulo una obiezione alla lettura severiniana della filosofia antica: se è vero che una delle caratteristiche peculiari della filosofia antica è l'aver distillato l'idea di innegabilità e l'averla impiegata per definire lo statuto epistemologico di alcuni dei suoi contenuti, da ciò non segue che quella filosofia abbia preteso innegabili tutte le sue affermazioni. Severino identifica erroneamente la pretesa filosofica di verità alla pretesa di innegabilità, ritiene cioè, erroneamente, che ogni tesi avanzata in filosofia pretenda di essere innegabile, cioè di saper mostrare l'impossibilità della sua negazione, come se tale difesa fosse l'unica giustificazione possibile o l'unica ammissibile in filosofia. (Su questo punto, ho il sospetto che Severino abbia proiettato sulla filosofia antica una preoccupazione che è più tipica della filosofia moderna: Descartes, ad esempio, sostiene esplicitamente che l'unica giustificazione ammissibile è quella che rivela l'indubitabilità e dunque l'innegabilità di quanto asserito; niente di simile è ad esempio riscontrabile nella filosofia di Aristotele, anzi, lì si trovano affermazioni che vanno nella direzione opposta, cioè verso l'ammissione di varie forme di giustificazione, anche all'interno della stessa filosofia). Nel finale del video, accenno alla differenza tra l'opposizione tra epistéme e doxa, quale Severino la ricostruisce, e la distinzione tra il destino e le fedi, quale si trova nei libri in cui Severino sviluppa il suo proprio discorso teoretico.

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